Il Provveditorato Generale
dello Stato, a suo tempo con 350 persone, 15 divisioni (gli uffici odierni) e
le tante vicissitudini legate agli acquisti per l’amministrazione statale,
rappresenta un mondo che qualche dipendente pubblico più stagionato ricorda con
nostalgia (e scetticismo su come gli acquisti sono gestiti oggi). L’ufficio
aveva un budget annuale di 1.000 miliardi di lire (una piccola finanziaria, per
coprire anche eventuali -in realtà immancabili!- eventi straordinari). Così tanti soldi servivano per
acquistare chilometri di archivi o mandare avanti le cartiere di Fabriano o
acquistare le prime stampanti rudimentali collegate ai pc sfarfallanti dei primi anni '80,
schermo nero e cursore verde; gli impiegati, abituati alle macchine da scrivere
e -come Policarpo ufficiale di scrittura- a proteggersi le maniche
dall’inchiostro, di carta ne sprecavano ancora tanta per allineare quanto
digitavano sullo schermo alle righe prestampate dei moduli cartacei (i word processor
maneggiavano solo caratteri alfanumerici).
Ogni divisione seguiva un
ambito, come potevano essere le spese telefoniche ed elettriche; in questo caso
l’ufficio periferico che dall'oggi al domani si ritrovava con la centralina telefonica distrutta da un
fulmine doveva chiamare il PGS, contattare l’ufficio territoriale dell’erario
che accertava il “fuori uso”, ottenere minimo 3 preventivi dalle ditte locali e
poi recapitare tutti gli incartamenti a Roma: la pratica, manco a dirlo, aveva una gestazione non proprio fulminea. Il prezzo della centralina dipendeva da quante prese telefoniche doveva servire (la spesa poteva sfiorare i 50 milioni d lire). Se il dirigente preposto decideva
che nessun preventivo era congruo, faceva
intervenire le ditte accreditate (e amiche) che operavano in tutta Italia in proprio oppure, secondo convenienza, facendosi sostituire sotto banco da ditte concorrenti, ma meglio posizionate sul
territorio (in uno scambio di favori a buon rendere che delineava una piccola
collusione oligopsonistica).
Il Provveditorato garantiva
anche i “crash test” delle forniture messe a gara e la loro conformità ai
capitolati. Gli uffici sulla Tiburtina provavano le penne proposte dalle
ditte gareggianti per l’appalto, fatte correre su metri e metri di nastro di
carta grazie a congegni meccanici automatici: così venivano scremate quelle con
il tratto più continuo (e il minor prezzo). Ad altro tipo di test erano
sottoposte le poltrone, non solo l’ergonomia (a quei tempi neanche troppo
spinta) ma soprattutto la resistenza a pesi e posizioni al limite, nonché la "salubrità" dei fumi emessi se incendiate; niente sembrava essere lasciato al
caso, anche se la perizia degli impiegati poteva essere cancellata in un colpo
solo dai dirigenti che pilotavano l’appalto verso gli amici dai prodotti più
scadenti (intrallazzi troppo smaccati generarono denunce e
condanne a più riprese).
Altro affare di altri tempi era
il conio delle monete, che avveniva
nella Zecca di piazza Vittorio, nella palazzina ora in parte occupata
dall’Ambra Jovinelli, un palazzo umbertino oggi che il demanio non si sa come
ha venduto…la carta moneta era appannaggio della Banca d’Italia ma le monete,
comprese le emissioni speciali, erano un prodotto della Zecca. Tra le monete a
corso regolare si ricordano le 500 lire d’argento con le caravelle, compresa una
edizione speciale fuori programma, dettata da un primo scriteriato conio di
molti esemplari con la bandiera sull’albero di prua orientata
controvento (!); agli inizi degli anni '70 monete d’oro o d’argento furono
ritirate in tutto il mondo, il loro valore nominale veniva superato ampiamente
dal valore intrinseco del metallo.
Sempre ricordando le vicende dei dicasteri economici
di qualche decennio fa, ecco i miliardi in titoli di stato al portatore compattati in valigette qualunque che gli
alti funzionari del Tesoro -accompagnati da fidati autisti, per l'occasione non in livrea (rigorosa prerogativa un tempo pure degli usceri) e su macchine
anonime- portavano alla Banca d’Italia quando a
questa era demandato il compito di equilibrare il bilancio dello Stato italiano
sottoscrivendone i titoli (e poi emettendo moneta e, così via, creando
inflazione pura, deteriorando i crediti, drenando potere d'acquisto, ecc.).
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